sabato 4 febbraio 2012

confessioni e divagamenti


A lungo ho pensato alle parole che avrei potuto usare per descrivere ciò che mi sto accingendo a raccontare, sempre invano. Il fatto è che non è affatto facile parlare apertamente di certe cose, sottoporsi volontariamente al giudizio altrui, volontario o involontario che sia. Combattere contro la tendenza della gente a stereotipare le prime impressioni e basare su queste non solo la forma mentis, ma anche l'atteggiamento conseguente nei confronti di chi ci troviamo di fronte, è una battaglia contro i mulini a vento. Tutto ciò che si può imparare dall'esperienza è che non c'è mai un modo giusto, indolore, per esprimere la propria natura, senza dover poi affrontare le conseguenze che già il solo nostro modo di esprimerci causa nei meccanismi che le persone adottano per relazionarsi a noi.
Purtroppo con l'esperienza si impara anche che non c'è maniera di evitare questo fenomeno. In questi casi non fa alcuna differenza decidere di essere onesti e mostrare la nostra vera natura o mentire e dare un immagine falsa di noi, per come vorremmo apparire. Il giudizio preliminare che le persone si fanno è sempre diverso da quello che ci aspettiamo di fargli assumere, ed è anche sempre determinante per quello definitivo che poi si andrà a consolidare. Eppure sprechiamo la quasi totalità della nostra intera esistenza a cercare di implementare e raffinare i nostri mezzi comunicativi, dal linguaggio agli atteggiamenti. Assimiliamo una quantità spropositata di imput da un'altrettanto spropositata quantità di sorgenti che l'idea di poter dare un ordine globale al marasma di infinite convenzioni sociali, falsi stereotipi, interpretazioni e credenze, è non solo dannosa e utopica, ma anche la causa del guazzabuglio moderno che regola il mondo che ci siamo creati attorno, a partire da dentro di noi.
Questo da vita a quel processo autonomo nel nostro subconscio che ci auto-influenza intrappolando il nostro cervello in un atteggiamento analitico per categorie, che sembra d'altronde funzionare così bene nel mondo esterno. Ma la differenza dei modelli è abissale, e non si può pensare di applicare le stesse soluzioni a problemi di natura diversa, anche se di fatto lo si fà continuamente. E il risultato è che è assolutamente impensabile cercare di far arrivare un messaggio -per così dire- "interiore", a qualcuno così come noi vogliamo che sia recepito, perchè una volta uscito da noi, questo messaggio andrà in pasto ad un elaboratissimo calcolatore che è il cervello umano, e verrà distorto, piegato, ruotato, e riadattato a quello che è l'immaginario complessivo del destinatario. Un po come l'immagine di un paesaggio che entra attraverso gli occhi nell'immaginario di un pittore, che rielabora l'immagine con il filtro della sua esperienza, e lo riporta su tela in maniera differente da come il paesaggio realmente appare. Il quadro stesso, se visto da qualcun'altro che non ne sia il creatore, assumerà ancora un altro significato, e così via, per ogni essere umano su questo pianeta.
Parlando in questi termini semplicistici si potrebbe dire che sembrerebbe una perdita di tempo colossale anche il provare a comunicare, dato che comunque il risultato sarà più o meno influenzato da un certo grado di incomprensione, a seconda del livello di complicatezza del "filtro" della persona con cui vogliamo comunicare. Ma non è proprio così. In effetti, tanto per non smentirsi, è ancora più complicata. Nel senso che il motivo per cui non riusciamo a rinunciare a provare a comunicare ciò che sentiamo (e badate bene, ho scritto "sentiamo", non "pensiamo") dipende da tante variabili, TRA CUI anche la complicatezza del filtro del nostro interlocutore. Altri parametri che maggiormente influenzano il livello di incomprensione potrebbero essere dovuti a noi, risaputamente gli ostacoli più grossi per noi stessi. Ma nonostante tutto c'è questa forza invisibile che ci spinge a continuare a provare, a migliorare le nostre capacità comunicative, a capire la complessità dei modi di ragionare delle persone, in modo da cercare di far arrivare il messaggio il più chiaramente possibile, fino a che la differenza tra il nostro messaggio originale e quello effettivamente recepito non è abbastanza piccola da farci arrendere e ammettere che alla fine "ci si è capiti". Stessa forza che ci spinge anche ad ignorare i costi effettivi di queste abitudini, rendendo la nostra vita per quanto riguarda i rapporti interpersonali, sì un cieco spreco di energie, ma anche allo stesso tempo una (non sempre) divertentissima perdita di tempo. 
Ecco perchè allora, in questi tempi di crisi, ho deciso di limitare al massimo gli sprechi, e di non dire ciò che avrei voluto dirvi sin dall'inizio. 

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Questo tuo "flusso di coscienza" mi ricorda tanto Uno, Nessuno, Centomila, in cui tutto un discorso ruotava intorno all'inutilità del comunicare perché "sono responsabile di quello che dico, ma non di quello che capisci" o qualcosa del genere.
Certe volte è anche vero, però, che non c'è bisogno di parlare per capirsi... E' questo il bello del cervello umano, pensiamo di sapere/capire tutto, quando in realtà conosciamo solo la nostra interpretazione del mondo. E dopo questa sessione di filosofia spicciola ti saluto

chiara

Marwich ha detto...

io volevo solo prendervi tutti un pochino per il sedere :P